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L’Italia soffoca dentro la sua crisi di partecipazione, conseguenza di tradimenti sistematici della volontà popolare

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di Marco Maria Freddi*

Cinquant’anni di banalizzazione e sfregio referendario. Dagli anni Settanta in poi, politici di ogni colore e sindacalisti di ogni epoca hanno contribuito a svilire l’unico istituto che consente ai cittadini di incidere direttamente sulla legislazione. La retorica è sempre la stessa: “Spetta al Parlamento legiferare” se non “Andate al mare” o “Facciamo saltare il quorum”.

Ma la realtà storica smentisce clamorosamente questa affermazione di principio. Il Parlamento, troppo spesso, non ha rispettato il mandato popolare espresso nei referendum; al contrario, ha sistematicamente lavorato per eluderne lo spirito e ribaltarne il risultato con leggi ad hoc. Si pensi ai casi emblematici del finanziamento pubblico ai partiti o alla legge elettorale, dove la volontà popolare è stata scavalcata, reinterpretata o addirittura capovolta. Ogni volta, il messaggio inviato ai cittadini è stato chiaro e devastante: “Il vostro voto conta finché non disturba i nostri equilibri”.

Questa crisi di rappresentanza non risparmia il mondo del lavoro. I sindacati appaiono ancorati a logiche novecentesche, incapaci di comprendere le sfide epocali dell’oggi. La contrarietà all’introduzione del salario minimo legale è l’esempio più lampante di un’inerzia che rasenta il tradimento dei più deboli. Dietro le posizioni ufficiali, si cela la preoccupazione di perdere potere contrattuale, sacrificando migliaia di lavoratori fragili con retribuzioni da fame.

In piena Quarta Rivoluzione Industriale, ascoltando i discorsi dei leader sindacali dello scorso Primo Maggio, che sono stati applauditissimi, emerge un’abissale distanza dalla realtà. Una retorica legata al secolo scorso che nulla dice dell’oggi e del domani del mondo del lavoro; eppure, sono stati applauditissimi. La loro inadeguatezza è tale che, dopo la sconfitta referendaria e la consapevolezza di essere così distanti dal sentire dei lavoratori, la dignità richiederebbe le dimissioni, lasciando spazio a nuove energie e a volti giovani sotto i 35 anni capaci di interpretare il presente.

Perché un cittadino dovrebbe credere che il suo voto possa cambiare le cose? La storia insegna il contrario. La materia stessa delle riforme cruciali, come quella del lavoro, è resa volutamente complessa e inaccessibile. Si promettono piccoli aggiustamenti, ma la sostanza – l’adattamento a un mondo che corre – rimane bloccata da privilegi consolidati e da una resistenza al cambiamento che paralizza sia il settore privato che quello pubblico. Imprenditori e lavoratori sanno bene che certi “diritti” sono ormai gabbie che soffocano l’innovazione e condannano i figli alla precarietà o all’esilio. La sensazione diffusa è che nulla possa davvero mutare.


La disaffezione nasce qui: dalla certezza dell’impotenza

Anche a livello locale, dove la partecipazione potrebbe fiorire, prevale la miopia. Parma ha avuto due occasioni d’oro – la questione dello stadio e quella dell’aeroporto – per sperimentare strumenti avanzati di democrazia deliberativa, come le assemblee delle cittadine e dei cittadini sorteggiati a sorte che hanno dato buoni frutti ovunque nel mondo già dagli anni 2000. Né l’amministrazione Pizzarotti né quella attuale hanno colto questa sfida. Anzi, l’attuale ha peggiorato la situazione, spendendo risorse pubbliche per approvare regolamenti sulla partecipazione che sono un passo indietro se non addirittura strumentali al controllo. È la prova che la partecipazione popolare è vista non come un valore, ma come un fastidioso riconoscimento del fallimento della politica stessa, un obbligo, la partecipazione, da richiamare solo in nome di un “dovere civico” svuotato di significato nel momento elettorale.

Da amante della politica, di una logica riformatrice e socialista che guarda al futuro, non vedo leader in Italia capaci di far sognare, di infondere entusiasmo, di convincere che un Paese più pragmatico, laico, maturo e consapevole sia possibile. Prevale la disillusione. E in questo vuoto, la destra trova terreno fertile. La sua cultura politica, che si accontenta della parola rassicurante e del mito del leader forte, rischia di governare a lungo, alimentata proprio dalla sfiducia generata dall’incapacità riformatrice degli altri. Il timore è che l’Italia possa scivolare verso modelli illiberali, come la Turchia di Erdogan, dove la Costituzione si sta piegando al volere del leader. La nostra unica speranza, in questo deserto di proposta democratica, risiede nelle auspicate sovranità condivise con l’Unione Europea: un intreccio di regole e vincoli così fitto da costituire, suo malgrado, un argine contro la deriva illiberale, costringendoci a vivere in uno spazio politico che, per quanto imperfetto, non potrà mai essere totalmente chiuso.

La strada per riconquistare la fiducia dei cittadini passa dunque da un percorso obbligato: ripensare radicalmente la partecipazione e ogni politico deve farsi carico di problema. Non basta più la democrazia rappresentativa tradizionale, svuotata dalla sfiducia. Servono nuovi strumenti deliberativi permanenti, trasparenti e vincolanti.

Serve un Parlamento che rispetti la volontà popolare espressa nei referendum, non che la tradisca. Serve un sindacato capace di rinnovarsi o di fare spazio. Senza questo coraggio, la disaffezione non sarà che il preludio a un più profondo, e pericoloso, sonno della democrazia.

 

* Radicale e Socialista, iscritto al Partito Democratico e PSOE

 

 

 

(10 giugno 2025)

©gaiaitalia.com 2025 – diritti riservati, riproduzione vietata

 

 





 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



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