di Marco Maria Freddi
Due pensieri hanno preso forma dentro di me, distinti eppure intrecciati. Il primo riguarda Elly Schlein, il secondo il futuro o, meglio, la sensazione che in questo paese il futuro sia sempre più difficile da intravedere.
Comincio da Elly Schlein, perché, a dispetto di tutto e di tutti, ha dimostrato di essere la segretaria giusta per il Partito Democratico. Non è stato facile. Le resistenze dietro le quinte sono state forti, soprattutto da parte di chi, come Stefano Bonaccini, ha vissuto la sua leadership come una minaccia a un modello politico che non vuole morire.
Eppure, lei ha resistito, ha ricucito alleanze, ha evitato lo sfaldamento del centrosinistra in un momento in cui la destra avanzava compatta e sicura del proprio passo. Non è poco, anzi è molto. Governare un partito come il PD non significa solo vincere congressi, ma saper tenere insieme mondi diversi, culture politiche lontane e generazioni che parlano lingue differenti. In questo Elly Schlein ha dimostrato capacità di sintesi, chiarezza e caparbietà che meritano riconoscimento.
Ha fatto bene. Ha fatto giusto. Ma c’è un però, e riguarda la parità, la rappresentanza e il futuro.
Guardando ai nomi messi in campo dal centrosinistra, non posso non notare una cosa evidente, sono tutti uomini sopra i cinquanta, con carriere lunghe e competenze indiscutibili. Nessuno mette in dubbio il loro valore, ma qui non si parla di valore, si parla di senso. Ieri il centrosinistra ha ufficializzato i propri candidati alle prossime elezioni regionali: Antonio Decaro in Puglia, Pasquale Tridico in Calabria, Roberto Fico in Campania, Eugenio Giani in Toscana e Andrea Manildo in Veneto. Tutti maschi.
Profili rispettabili, con anni di impegno alle spalle, ma sempre uomini, già noti, già protagonisti di altre stagioni e inseriti nel circuito del potere. Queste scelte non sono state imposte da Schlein, sono il frutto di un lungo negoziato tra forze del centrosinistra, correnti interne, interessi locali ed equilibri di potere e proprio per questo risultano ancora più significative. Non un errore, ma una scelta politica collettiva, che dimostra che il cambiamento non passa di qui. Abbiamo riproposto i soliti nomi degni, meritevoli e conosciutissimi. Quelli che hanno già governato, che hanno già avuto la loro occasione e che hanno già lasciato il segno in bene o in male.
E in questo passaggio, mentre la segretaria del PD è una donna giovane, coraggiosa e simbolo di una nuova stagione, la classe dirigente ha deciso di non rinnovarsi, di non osare e di non rischiare. Persino il nome di Nichi Vendola, uscito di scena da anni, torna a circolare in certi ambienti non perché serva davvero, ma perché è noto, deve esserci perché rassicurante e non spaventa. Il segnale è chiaro: il nuovo fa paura, il diverso fa paura, il giovane fa paura. Meglio tornare a chi conosciamo.
Ecco il punto politico, la paura del nuovo, la paura di scommettere su volti sconosciuti, su donne, su giovani, su chi non ha fatto carriera nel partito ma ha vissuto nella società reale. Da Radicale e Socialista iscritto al Partito Democratico constato con amarezza che il personalismo di questi protagonisti maschili prevale sull’interesse collettivo e pesa più della crisi sociale, della precarietà, del degrado dei servizi pubblici e dell’emergenza climatica.
In un paese che ha bisogno di coraggio scelgono la sicurezza del noto. In un partito che ha bisogno di riforma scelgono il riciclo. Di questo si tratta: riciclo, non rinnovamento, non rilancio, non passaggio di testimone. È il ritorno al potere di chi ha già governato, spesso senza lasciare tracce significative, e ora chiede un’altra occasione come se fosse un diritto.
È sconfortante perché il riformismo, se vuole essere credibile, deve cominciare da sé stesso. Il primo atto di riforma consiste nel farsi da parte, dire “il mio tempo è finito, ora tocca ad altri” e lasciare spazio a chi non ha avuto voce, chance o appoggio. E mentre qui si discute su chi abbia più meriti per governare, come se la politica fosse un premio di anzianità, le destre estreme al governo dipingono un’altra immagine del futuro, un futuro che guarda al passato, un mondo in cui l’ordine si chiama repressione, la sicurezza espulsione, la famiglia si impone per legge e la libertà si riduce a obbedienza. Un mondo in cui il progresso è corruzione e il diverso una minaccia.
Che vincano o meno, sono due facce della stessa crisi. Da una parte un centrosinistra che ha paura del nuovo e si ripete, dall’altra una destra che odia il presente e vuole cancellarlo. In mezzo resta un paese che invecchia, governato da vecchi per soli vecchi. Un paese dove i giovani non vedono spazio e le donne non vedono riconoscimento. Questi avrebbero dovuti essere i candidati, sei giovani sotto i quarant’anni, possibilmente donne.
È difficile essere positivi in un paese così perché il pessimismo non è un umore ma una diagnosi. Dice che non c’è futuro dove non c’è passaggio di testimone, non c’è democrazia dove non c’è alternanza e non c’è speranza dove non c’è coraggio di chiudere una pagina.
Il riformismo non è mantenere il potere, è saperlo lasciare. La sinistra non è gestire il presente, è costruire il domani. I dirigenti non possono essere al tempo stesso mezzo e fine della gestione del potere. Il mezzo deve essere biodegradabile, decomponibile o trasformabile, il fine deve essere la speranza che la sinistra deve offrire ai cittadini.
Il problema non riguarda solo chi governa. A destra come a sinistra molti sembrano più interessati a garantirsi futuro e potere che a servire gli altri e così, a quel cinquanta percento di aventi diritto al voto ormai lontani dalle urne, si trasmette un unico messaggio, la conferma dello status quo e non la possibilità di sperare.
(7 settembre 2025)
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