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Obbligati ad essere utopisti (parte II): dalla morte dell’io al risorgere del “noi”

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di Vanni Sgaravatti

Perché parliamo di metamorfosi nell’assistere ai grandi cambiamenti del nostro tempo? I cambiamenti non ci sono sempre stati e sono sempre apparsi come radicali ai contemporanei? Può darsi, ma oggi siamo in grado di analizzare meglio la nostra storia passata.

Il diritto di proprietà era costitutivo di un mondo gerarchico, la cui gerarchia era considerata emanazione di una legge divina, in cui il superiore assicurava sicurezza in cambio, da parte degli inferiori, di cessione della propria autonomia (servitù), con fondamentali riserve determinate dal rapporto con le “terre comuni”, con cui le popolazioni locali avevano un rapporto diretto e inscindibile. All’inizio dell’era capitalistica, il mercato della lana e la scoperta di nuovi mondi da sfruttare aveva reso molto conveniente utilizzare la terra per l’allevamento. Cominciò l’era delle recinzioni e della rimozione di chi vi domiciliava e si sosteneva anche con l’uso di quelle terre. Questo ha significato, come è noto, rendere la terra un bene da vendere e comprare, da portare al mercato, con tanto di diritti di sfratto e rendere le persone “libere” di vendere la propria forza lavoro al mercato. In questo senso, la libertà da cercare di ottenere era quella dell’autosufficienza e dell’esclusività (del bene posseduto).

La base per correggere le distorsioni del mercato del lavoro e dei tanti poveri che rimasero, poi, fuori dal mercato, quando la situazione diventava insostenibile, richiese lo spostamento dello sfruttamento in altri paesi lontani, oltre a misure di welfare, a partire dai primi sistemi pensionistici e altri sussidi, a partire dalla carità religiosa, fino a quelli di disoccupazione. Una ricerca di questo tipo di libertà a cui contribuì il diritto di famiglia, che permetteva ai piccoli proprietari di assicurare l’autonomia alla propria famiglia, attraverso i lasciti ereditari. Questa è la base culturale che fa da sfondo alle esigenze di sicurezza e libertà, per come ancora la percepiamo oggi.

Ma agli occhi della generazione X e della generazione Z, questo concetto di libertà sta sempre di più apparendo come alieno. Queste generazioni, come dice l’economista Jeremy Rifkin nel libro “Ripensare l’esistenza su una terra che si rinaturalizza” sono cresciute in un mondo che sta passando dalla proprietà all’accesso, dal valore di scambio al valore di condivisione, dai mercati alle reti, dall’ossessione per l’esclusività (il possesso di una casa), ad una passione per l’inclusività.

Per una coorte globale di nativi digitali, perennemente connessi, autonomia ed esclusività – cioè essere separati dal mondo con un muro – sarebbero equivalente ad una condanna a morte: in mancanza di telefoni cellulari e di connessione internet, i nativi digitali sarebbero persi. Non vi sembra una metamorfosi culturale profonda?

Qualcuno dei miei coetanei e concittadini può pensare che ancora il mondo dove viviamo non sia esattamente questo, ma occorre tenere conto che l’Europa sta ancora un passo indietro rispetto alle metropoli cinesi e agli USA, ma, di solito, seguiamo le tendenze mondiali. E che i giovani di cui si parla, non sono i nostri figli che proprio nativi digitali ancora non sono, ma i nostri nipoti, cioè gli adolescenti di genitori di 40 anni. In un mondo che si allontana dai diritti esclusivi di proprietà come fondanti del sistema sociale occorre anche una metamorfosi della governance: dalla democrazia alla paricrazia. 

La sussidiarietà, come principio europeo, assomiglia alla governance partecipativa e paricratica, di cui si parla come rafforzamento della democrazia rappresentativa, senza finire nel populismo o nei modelli autocratici e oligarchici. Ma può funzionare solo se a questa viene attribuita un’importanza reale nel processo decisionale e questo avviene, sia se le procedure decisionali amministrative sono integrate nelle norme, sia se funziona l’infraetica (come la chiama il Prof. Floridi), cioè le regole morali con cui avvengono confronti e relazioni. Mi sembra che questo preveda un forte senso di appartenenza ad una comunità, un agire etico che prevede un valore superiore alla valutazione dei vantaggi personali. Altrimenti diventa una contrattazione decentrata fatta di compensazioni elettorali.

Perché le assemblee di bio-zone (cioè quelle con interessi di armonia sociale e ambientale legate alle caratteristiche sufficientemente omogenee di una zona) non si trasformino in tante litigiose assemblee di condominio, occorre avere una sensibilità e una morale vissuta nella gestione dei beni comuni. Per intendersi, invito ad immaginare come potesse essere la gestione dei beni comuni, una volta, prima che le enclosure, dividendo e privatizzando le terre, cioè rendendole esclusive per coloro che detenevano titoli di proprietà (i granai in India; le foreste incolte in Irlanda ed in Inghilterra) eliminassero le riserve delle comunità locali. In quell’epoca, era chiaro che il mostro era quello che si appropriava delle risorse ambientali comuni e così lui stesso si sentiva, già di fatto autoemarginato. Se non era il signore che aveva le forze per diventare il padrone assoluto e distruggere le reti comunitarie.

In molti casi, prima della rivoluzione industriale e della colonizzazione, si manteneva un equilibrio tra il potere del signore o sovrano, che in cambio di protezione richiedeva servigi e l’autonomia minima della Comunità. Poi nella rivoluzione industriale le riserve dei beni comuni sono state spazzate via. Quella esperienza è ormai dimenticata da secoli e temo che siamo ancora lontani da recuperare quella sensibilità, a parte gli esperimenti Hippy e new age che si sono retti proprio perché fuori dalle regole del sistema che, invece, dovrebbero evolversi.

Ma è per necessità che dovremmo provarci. L’alternativa è proseguire in questo lento degrado del modo di fare politica nei paesi occidentali, fisiologicamente ed inevitabilmente alla ricerca di voti, cioè di consenso elettorale, che, anche quando cavalcasse iniziative socialmente efficaci, punta sempre e comunque ad ascrivere i meriti ad una parte a detrimento dell’altro in un gioco a somma negativa. Una propaganda elettorale tanto detestata, ad esempio, da Putin quando diceva di trovare immorale e poco degno andare in Tv a fare promesse per farsi eleggere, così come dai primi presidenti americani, che trovarono nelle commissioni di governo contrappesi alla degradante democrazia, parola che, guarda caso, non è riportata nella Costituzione americana. Che trova immorale.

E altre alternative sono ancora peggiori, come l’autarchia, l’oligarchia con la relativa supremazia di pochi, di corporazioni (Kgb) o di razza (Han in Cina).

Senza l’infrastruttura resiliente distribuita (energia, trasporti, comunicazione sociale e decisionale), la governance bio-regionale sarà impossibile, e senza la governance paritaria distribuita, le ecoregioni non potranno essere custodite in modo appropriato, scrive Jeremy Rifkin. E le sue parole richiamano l’infraetica di Floridi (regole morali per il confronto per i processi decisionali).

In modo più semplice possiamo dire che, senza partecipazione nella gestione dei beni comuni, la democrazia per come l’abbiamo conosciuta nella seconda rivoluzione industriale non potrà altro che degradarsi. Ecco perché uscire dalla propria comfort zone, uscire dal “divano” in cui spesso ci sprofondiamo e dall’indignazione televisiva, combattendo la propria pigrizia (che ben conosco in prima persona) è una guerra da fare. Ed ecco perché, a volte, mi volto da un’altra parte di fronte alla critica televisiva o mediatica degli irresponsabili personaggi, soprattutto politici locali, che i media portano alla nostra attenzione. Non perché spesso non meritino i nostri moti di indignazione, ma perché sento che stiamo utilizzando le nostre giuste proteste per spostare al di fuori un compito ben più gravoso: non solo conoscere sé stessi, ma provare a cambiare noi stessi e persino continuare a farlo, scoprendo di non riuscirci.

E, quindi, ancora una volta, dobbiamo essere utopisti per necessità e provare a diventare da resistenti a resilienti, come va di moda dire oggi, ma stando attenti che la resilienza a cui dovremmo aspirare non è quella che normalmente si intende, cioè la capacità di resistere e di risorgere dalle sventure, ma la flessibilità nel perseguire il proprio sviluppo, attraverso la molteplicità delle relazioni di cui siamo il frutto. La nostra stessa esistenza è confermata dall’altro, con cui sviluppiamo una relazione basata su un’innata empatia. Altrimenti non sappiamo chi siamo. Empatia che non è solo emozione, ma anche esperienza cognitiva.

Ghoete disse: “Riuscire ad avere accesso alla condizione degli altri, sentire il carattere specifico di qualunque esistenza umana e parteciparvi con piacere, significa affermare l’unità della vita. Quello splendido sentimento che ci fa avvertire come soltanto il genere umano nel suo insieme sia il vero uomo e che il singolo individuo, in quanto unico, rende unica ogni relazione e può essere gioioso e felice soltanto quando ha il coraggio di sentirsi parte di un’unità.

Oggi, si parla nello sviluppo dell’umanità: dalla coscienza animista a quella teleologica e poi ideologica (quella dell’era del progresso) che dovrebbe evolversi nella coscienza bio-filica. Per poi scoprire che Ghoete ne aveva già parlato due secoli fa.

Certo, noi siamo unici, ma non significa che siamo autonomi. Perché la vera unicità sta nella relazione, nell’unicità del viaggio insieme nella vita, come compagni legati tra loro. Nell’età del progresso, il rispetto dei diritti, quando ha superato il diritto alla sopravvivenza, diventa un diritto alla sovranità individuale, che, però, si scontra con la pratica vera della democrazia.

Ricordo la battuta di Woody Allen: “Dio è morto, Marx pure e io non mi sento troppo bene”. Ed è normale pensare che l’ “io” seguirà il destino dei primi due, fino a quando il “noi” non li farà risorgere entrambi. Un’abitudine, quella di risorgere, che non muore mai.

 

 

(4 dicembre 2022)

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