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HomeL'Opinione ParmaLa cecità storica Occidentale: un modo per evitare i conflitti

La cecità storica Occidentale: un modo per evitare i conflitti

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di Vanni Sgaravatti

Intanto dovremmo chiarire cosa intendiamo per occidente. Come dice lo storico Graziosi, sono tanti gli occidenti. Naturalmente intendiamo quello del dopoguerra tra Stati Uniti e paesi non socialisti. Guardando i tanti occidenti a partire da quello greco, a quello cristiano, a quello della rivoluzione industriale, da una parte capiamo come l’associazione tra occidente e libertà sia un falso, dall’altro però è innegabile che, dopo ogni occidente, si è registrato un miglioramento nei diritti alla libertà.

Il bene per noi occidentali del secondo dopo guerra era ed è: più cibo, più libri, più case, più vita, più ambiente controllato dall’uomo (cambiato negli ultimi 30 anni in più armonia con la natura). I sogni, che per noi non sono desideri, ma diventano diritti sono determinati dal credere nel progresso, come crescita continua dei diritti, che il “bene” produce.

Il male tende ad essere rimosso e cancellato ed è inteso come: desiderio di sopraffazione, di chiusura e controllo, il riprodursi dell’ingiustizia e delle disuguaglianze, l’inevitabilità della sofferenza e della morte.

Per combattere il male occorre combatterlo, per combatterlo occorre affrontarlo, per affrontarlo occorre riconoscerlo e non rimuoverlo.

La lotta Ucraina ci ha dolorosamente risvegliato dal nostro sonno e dal sogno del bene che si realizza in un miglioramento continuo, quel mito del progresso a cui nessuno razionalmente crede, ma che profondamente nessuno rinuncia a sognare. E ci ha ricordato che dobbiamo combattere, non solo nei nostri salotti o nelle piazze delle città occidentali, nel corso dei week end, ma anche fuori dai nostri confini personali e nazionali. E questo risveglio, e relativo impegnativo carico, è sulle spalle di tutti: paradossalmente anche di quelli che i conflitti sperano di evitarli non mandando armi là, ma dovendo poi combattere qua.

Molti vorrebbero continuare ad evitare i conflitti, vorrebbero ritornare indietro, sperando che la classe dirigente dell’Occidente, che secondo questi, ha le maggiori responsabilità di averci portato in questa situazione, possa riconoscere gli errori, negoziare, cancellare i conflitti e rimettere indietro le lancette indietro. Quanto indietro? Forse a quando stavamo meglio noi e vivevamo tranquilli e senza ansie? Ah beh, si certo.

Gli errori e le responsabilità dell’Occidente ci sono eccome, ma stanno nell’avere finora evitato il conflitto per tutte le ragioni riportate in molti miei articoli precedenti. Sono quelle ragioni che hanno a che fare, da una parte con il liberismo senza regole e il corrispondente degrado morale, che ha reso facile immaginare, da parte della grande Russia, di poter governare il mondo e riconquistare l’egemonia attraverso la corruzione di molti dirigenti occidentali, privati e pubblici, collusi e appunto corrotti e, da parte occidentale, nell’edulcorare le tensioni e gli obiettivi egemonici e aggressivi russi per continuare a fare affari con loro, a scapito delle terre di confine, delle terre di mezzo, dalla Georgia all’Ucraina, dalla Moldova ai paesi baltici.

Il contesto culturale occidentale, in cui hanno operato quei dirigenti russi è lo stesso di cui i progressisti e non solo si lamentano, cioè l’assoluto predominio della sfera economico-finanziaria rispetto alla politica (intesa nel senso nobile del termine), con la conseguente mercificazione di tutti i rapporti e di cui anche noi siamo responsabili quando ci facciamo comprare, in cambio della nostra comfort zone.

La politica internazionale, almeno per qualcuno, è stata sempre un passo indietro: nel caso della Siria, con la politica di Obama, apprezzabile nelle intenzioni, ma che, di fatto, ha abbandonato i Curdi; agli accordi perversi tra Siria, Turchia e Russia o nell’abbandono della Georgia, dell’Ossezia, o nel disastro dell’Afghanistan (pare che i Russi abbiano cominciato a definire i piani dell’invasione dopo la ritirata dall’Afghanistan. Chissà perché?). Naturalmente le giustificazioni di questo voltarsi dall’altra parte ci sono, anche rimanendo nella storia recente: gli esempi precedenti di interventismo sono stati tragici, si pensi all’Irak o alla Libia.

I filtri delle narrazioni ideologiche giustificatrici per non affrontare direttamente il conflitto con la Russia sono stati a geometria variabile: per i conservatori di destra sono stati i valori di ordine di un mondo perduto, da cui Putin e i suoi potrebbero risultare compagni di destra che sbagliano ed esagerano, ma, che, in fondo, portano avanti sistemi che hanno una loro purezza morale.

Mentre per quelli di sinistra, nostalgici del tempo in cui si poteva gridare senza contraddizioni “yankee go home”, la narrazione che, in fondo, Putin è uno di destra che ha trovato lo spazio in una società, che, se non fosse stata repressa dall’egemonia occidentale, sarebbe stata meno disuguale e non avrebbe permesso tutto questo.

Veramente sono incredulo dalla capacità di trasformismo, adattabilità e duttilità della propaganda, con il supporto di un potente sistema di fake news, in cui si vuol far credere che tutti producono fake news e tutti hanno ragione. E, quindi, nessuno ha ragione.

Come ho già citato in un altro mio articolo, la conferenza di Helsinki del 1975 sulla sicurezza e la cooperazione in Europa aveva fatto dei confini territoriali un tabù, facendo finta di non vedere che l’autodeterminazione dei popoli, nel nuovo corso post 1975, avrebbe potuto comportare moltissimi problemi nei confini di federazione etniche come Iugoslavia e Russia.

Con il senno di poi tutto si capisce, ma chi avrebbe potuto immaginare cosa sarebbe successo, se lo stesso Conquest facendo uscire il suo terribile libro verità sull’Holodomor parlava di problemi che il rapporto tra Russia e Ucraina avrebbe comportato per l’Europa, ma immaginando che sarebbe stato ancora un problema interno all’Unione Sovietica, crollata, invece, quattro anni dopo.

Va bene citare il senno del poi, ma anche continuare a sbagliare diagnosi del mondo, con a disposizione questo senno, mi pare incredibile. Appare, incredibile, che lo stesso Graziosi, professore italiano esperto di storia russa, scrivesse già nel 1992 che la conversione di molti dirigenti democratici russi era avvenuta in base a considerazioni imperiali e alla presa di coscienza che non si poteva rinchiudere la Russia nei confini del XVIII secolo, privandola dei suoi sbocchi al mare (come diceva il Presidente della Commissione esteri del Parlamento russo, già leader del movimento riformatore).

Pensate come si poteva interpretare l’accordo di Budapest del 1994 su queste basi e considerazioni di oggi. Quell’accordo in cui la Russia si prendeva in carico tutte le bombe nucleari dell’Ucraina, le trasferiva nel suo territorio, in cambio di un imperituro rispetto dei confini dell’Ucraina, Crimea compresa.

Una Crimea, tra l’altro, confermata ucraina, dopo uno scambio che ha previsto anche la cessione di altri due territori alla Russia, il Kuban e altri territori molto più redditizi ed in cui la maggioranza della popolazione era ucraina. Una Crimea, che è stata trasformata dall’Ucraina da una terra di sassi (a parte Sebastopoli) ad un territorio redditizio, per i lavori infrastrutturali fatti dagli Ucraini. Questo almeno secondo alcuni amici ucraini, indirettamente collegati con il misterioso Vanjoc, quello che ora raccoglie fondi dagli anziani rimasti nell’Ucraina orientale per le armi dei soldati senza passare dai dirigenti ucraini di cui alcuni non si fidano troppo, visto come la corruzione dei massimi dirigenti ucraini sia stata, in passato, un’arma utilizzata dai russi per evitare che gli Ucraini combattano la loro battaglia come ormai sono decisi a fare: libertà o morte. Il popolo ucraino, quello sotto le bombe, ha paura che gli interessi convincano i loro rappresentanti, quelli che stanno dentro i palazzi, a cedere pur di avere la pace, non il contrario.

Già negli anni del memorandum di Budapest si potevano già vedere le forti divergenze tra il destino della Russia e quello dell’Ucraina, che per dimensione non poteva seguire il destino delle tante repubbliche interne alla Russia che tentarono la strada dell’indipendenza, dal Nagorno Karabach, alla Ossezia, alla Cecenia.

Il primo destino, quello russo, si agganciava all’identità imperiale, con un’ideologia nazionalista centrale di supporto, mentre il secondo, quello Ucraino, tendeva per storia e cultura a trovare la propria matrice culturale di coesione in una visione multipolare ed europea.

Ma è incredibile come pochi italiani conoscano queste storie, un po’ per un’endemica pigrizia a studiare, un po’ per interessi di sorta (saldati con la vecchia cultura Francia e spagna basta che se magna), ma anche per quella visione occidentalocentrica che porta ad una contraddizione incredibile, proprio in quelli che parlano di provocazioni occidentali.

Da una parte criticano America ed Europa per la loro tendenza egemonica, dall’altra negano a sé stessi che un popolo come quello ucraino possa avere spinte e strategie nazionali autonome, ma sia, invece, un collettivo incapace di intendere e di volere, ma solo in grado di rispondere alle nostre sollecitazioni.

Sono rappresentanti di una posizione culturale che si culla ancora e sempre nell’idea che gli occidentali abbiano la forza di imporre e di governare il mondo, magari corrompendo i leader ucraini per gli interessi occidentali, che, a loro volta, manipolano a proprio piacimento gli stessi contadini ucraini un po’ ignoranti.

Sembrano che queste persone ancora non abbiano compreso le conseguenze del processo di decolonizzazione, perché comprenderlo e accettarlo potrebbe far venire meno il nemico da combattere e magari aver paura che insieme a quello sparisca anche il “papà” che in fondo ti dà la paghetta.

Cioè quel welfare sociale europeo assicurato tramite la crescita economica che, in gran parte si basa sulle politiche di sfruttamento delle altre economie e delle materie prime in giro per quei paesi, che faccio fatica a definire in via di sviluppo, attraverso enti globali, liberisti, multinazionali e non solo occidentali: dalla banca mondiale, all’istituto del commercio internazionale o alle piattaforme delle multinazionali del nuovo capitalismo di sorveglianza.

La questione altrettanto incredibile, come ho già ripetuto in molti articoli è che tutte queste considerazioni sulle strategie e sugli obiettivi di Putin non sono desunte da interpretazioni di esperti e giornalisti. O almeno non solo, ma sono esplicitate direttamente dal protagonista in suoi discorsi ufficiali.

Ad esempio, il diritto alla non esistenza dell’Ucraina come nazione autonoma, ma semmai come regione all’interno di confini amministrativi stabiliti dall’impero russo è stata dichiarata ufficialmente sia in prospettive strategiche, sia in una prospettiva storica, quando Putin ha criticato fortemente Lenin per aver ceduto al principio di autodeterminazione dei popoli nazionali. Dimenticando che il grande architetto ci aveva provato con la prima carestia del 1920-21, condotta contro coloro gli Ucraini che avevano combattuto per far vincere i bolscevichi nella rivoluzione, ma che aveva dovuto rinunciare per non dover subire una mancanza di risorse necessarie al rafforzamento dello stato sovietico e ancora prima alla vittoria con le armate bianche. E Putin dovrebbe capire che lo stesso Lenin è stato per lui una fonte di ispirazione per le strategie radicali di assoggettamento degli altri, visto le sue idee sulle decadenti attitudini borghesi di voler dare da mangiare agli affamati, quando è la fame che può utilmente radicalizzare la lotta.

Persino la forza e l’aggressività sono stati dichiarati dei valori sia quando è stato pubblicamente affermato che il difetto del traditore Gorbaciov stava nel suo buonismo (di cattivismo ne avevano visto abbastanza i dirigenti sovietici), sia quando aveva sostenuto che il memorandum di Budapest non era più valido, perché le forze in campo erano cambiate. La Russia non era tenuta a rispettare i patti con una nazione Ucraina non in grado di contrapporsi. Strano ragionamento: se fossero i rapporti di forza che definiscono gli accordi, non ci sarebbe bisogno di alcun trattato.
Mi viene da pensare che, per la cultura politica italiana, comprendere il marziano Putin e i putiniani, sia praticamente impossibile. Putin (e altri suoi compagni, da Abramovich ad alcuni terribili capi del Fsb) è una persona uscita dagli orfanotrofi post Holodomor. Cresciuto come agente segreto, capace di vivere una doppia e una tripla vita per decenni e capace di pianificare il futuro suo e del suo mandato, osservando nel 2003 come andava la rivoluzione delle rose, aspettando per anni il momento buono per intervenire in Georgia, pianificando il cambio di relazioni internazionali, la circuizione tramite accordi con la malavita di San Pietroburgo della dirigenza finanziaria americana e di Trump, la costruzione di un sistema di oligarchi ricattabili al momento giusto.

Ha qualcosa a che vedere con il pianeta politico italiano un uomo capace di considerare il terrore come un’arma legittima, nel farsi vedere alla guida dei carri armati nella repressione in Cecenia, intervento provocato dal terribile atto terroristico di Beslan, falsamente attribuito ai Ceceni, mentre contemporaneamente sosteneva che era profondamente immorale fare campagna elettorale mostrandosi in televisione per fare promesse in cambio di consenso e di voti?

Lingua, morale, interpretazioni cognitive del mondo caratterizzano il modo di comprendere e di relazionarsi di una persona. Provate allora a mettere a fianco di Putin e magari di uno di quei blogger che hanno dichiarato in Tv che i bambini ucraini dovrebbero essere uccisi tutti, pensando di avere degli applausi per questo e alcuni personaggi politici italiani (non tutti ovviamente), che frequentano i nostri talk show, che, se anche fossero onesti e competenti, sono comunque indotti a pianificare la campagna elettorale del prossimo anno per non sparire, non più illuminati dai riflettori della pubblica opinione.

 

(22 maggio 2023)

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