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Panchine rosse, arcobaleno, simboli e politica. Chi si accontenta…

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di Paolo M. Minciotti #Lopinione twitter@parmanotizie #LGBTI

 

E’ necessario che io chiarisca subito che sto parlando di una città che amo, di grande civiltà, di grande bellezza e dove il quotidiano con il quale collaboro, questo, ha anche organizzato un paio di eventi importanti, e che quindi non sto “attaccando” una città, una politica, un modo di essere o pensare. Mi permetto un paio di riflessioni. Niente di più.

Da qualche giorno la città di Parma ha inaugurato una panchina arcobaleno come simbolo di attenzione alle persone LGBTI della città e non solo; altre iniziative analoghe atte, negli intenti, a sensibilizzare – una parola detestabile almeno quanto resilienza – quei trogloditi che di notte frequentano i luoghi oscuri alla ricerca di probiti piacer inconfessabili a mogli e figli e di giorno scherniscono le persone omosessuali.
Esattamente come per le panchine rosse per le donne, la mimosa dell’8 marzo, i Gay Pride, certe manifestazioni sterili di ancor più sterili associazioni autoreferenziali, non necessariamente e non solo legate al mondo LGBTI, prevalentemente circondate da squittii, fotografie eccessive, sorrisi a 120 venti e tanti comunicati stampa rischiano di servire a quei pochi per i quali assumono un valore.

La sensibilizzazione – una parola detestabile almeno quanto resilienza – rischia così di fermarsi e pietrificarsi su simboli che sono già vecchi nel momento in cui vengono inaugurati. Esiste soltanto un antidoto al pregiudizio: una sana e consapevole educazione al rispetto ed alla conoscenza che parta dal primo giorno di scuola e politiche inclusive che vadano al di là della misura che serve alla percezione altrui del nostro essere buoni perché ci comportiamo come loro vorrebbero.

Questo, insieme all’intolleranza genetica dei nostri compatrioti, rischia di far finire sotto il sedere ogni buon proposito. Come ogni panchina. che sia rossa, verde, gialla, arcobaleno o color legno e che venga inaugurata a Parma, Catania, Aosta, Rabat o a Timbuctù.

E c’è chi si accontenta dei simboli. E non sto parlando dei politici che, con il paese che si ritrovano, fanno quello che ritengono utile fare. E stiamo parlando di una città dove esiste ascolto.

 




 

 

(7 giugno 2019)

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